Alla seconda stagione di Designated Survivor, e dopo aver consumato con devozione almeno una decina di serie tv che ruotano intorno allo stesso tema, che poi è salvare il pianeta in 45 minuti, ho finalmente capito che a tenermi inchiodata a uno schermo anche quando non vorrei non è solo l’adrenalina e il maledetto cliffhanger, ma la rassicurante sensazione che rispetto a Tom Kirkman, il più onesto e solo apparentemente ingenuo presidente degli Stati Uniti, il ritmo della mia vita è davvero una passeggiata. E che se lui e il suo staff, esseri umani come me, sono in grado di sventare un attacco batteriologico in una sola giornata (puntata) allora è molto probabile che io riesca ad arrivare a sera facendo tutto quello che devo fare. E siccome non sto salvando il mondo, posso perfino permettermi di rallentare.
Senza sminuire il lavoro, né gli impegni familiari che possono essere complessi quando non c’è nessuno che ci dà una mano, al di là della finzione cinematografica di una serie televisiva che comunque consiglio vivamente a chi piace il genere, dovremmo ricordarci che tutti noi siamo destinati a sopravvivere a questa vita, che in parte ci siamo scelti e in parte no, ma che a differenza di Tom Kirkman (e per chi lo ricorda Jack Bauer, sempre interpretato da Kiefer Sutherland, ma con meno ritocchi al viso), possiamo perfino farlo con un po’ di calma in più. Ed è già un bel privilegio.