Gli ultimi di Lee Jeffries

Delle tante mostre che ho visto a gennaio a Milano, quella che vi consiglio di non perdere è “Lee Jeffries. Portraits. L’anima oltre l’immagine”  al Museo Diocesano (fino al 16 aprile 2023). E non tanto per la qualità delle immagini in mostra – belle ma molto lavorate in post produzione -, quanto per la potenza e il coraggio dei lavori di un fotografo che ha fatto dei senza dimora il suo unico soggetto. E il risultato è una galleria di ritratti che non ti aspetti. E che non lascia indifferenti.

Siamo abituati a vedere il mondo degli ultimi da lontano, ripreso attraverso l’ingrandimento di un teleobiettivo, contestualizzato nelle baraccopoli, sui cartoni distesi sui marciapiedi, nei sacchi a pelo a bordo strada. Qui i più fragili, quelli che abitano le nostre città come fantasmi, sono fotografati su fondo nero, così da vicino che è possibile contare le rughe di ogni volto. Una distanza insolita che Jeffries è riuscito ad accorciare trasformando ogni immagine nell’occasione di un incontro. Con ognuno dei personaggi che vedrete, infatti, il fotografo ha costruito un rapporto personale, ha conosciuto il loro mondo, le loro storie, i loro nomi, i loro dolori. E, senza voltarsi dall’altra parte, è arrivato ad acchiappare la loro anima. Davvero commovente.

Nato a Bolton (Inghilterra) nel 1971, Jeffries è un fotografo autodidatta che comincia a ritrarre la vita dei senza tetto delle grandi città per caso, dopo un’immagine rubata a una ragazza che dormina in sacco a pelo a Londra. Era uscito a fare un po’ di street photography, come lui stesso racconta, quando da lontano ha scattato questa foto perché la scena lo aveva colpito. La ragazza si arrabbiò moltissimo, gridandogli contro. E Jeffries, invece di scappare, decise di avvicinarsi e parlare con lei. È cominciato così un coraggioso viaggio nel mondo degli ultimi che lo ha portato da Los Angeles a Roma. La mostra è una bella selezione di 15 anni di lavoro, la prima in un museo milanese. Non perdetela perché «ogni fotografia – spiega Jeffries – è la fine di un lungo viaggio emozionale. È il mio modo di dire addio a queste persone dopo aver costruito con loro una relazione personale».

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